Diana “Spaghetto” Manfredi è una regista italiana che da molti anni lavora negli Stati Uniti. Ha esordito con video sul mondo dello skate (il suo primo film, Skaterz, è stato un piccolo caso nel 2001) e ha proseguito trattando temi diversi, come una storia figlia dell’Apartheid in District Six – Time to return home, e girando cortometraggi, spot e video musicali.
Nel 2014 ha lanciato un crowdfunding su Indiegogo per realizzare un documentario sul twerking, fenomeno che stava spopolando e che voleva raccontare in maniera approfondita, analizzandone la storia e le implicazioni meno visibili, anche grazie a moltissime interviste girate un po’ in tutto il mondo.
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Nel frattempo il documentario è uscito, e venerdì 7 luglio verrà presentato a Milano, a BASE, alla presenza della regista. Ne abbiamo approfittato per fare quattro chiacchiere con Diana, che ci ha concesso in esclusiva un estratto dal film.
Creators: Come nasce l’idea di un documentario su questo tema?
Diana “Spaghetto” Manfredi: Io vivo e lavoro a Los Angeles da parecchi anni, e per una serie di circostanze sono finita a produrre e dirigere un tot di video musicali principalmente rap. Il twerk in America e a LA c’era da anni, lo si vedeva nei video musicali, alle feste, su YouTube, ovviamente negli strip club. Ma nel 2012, grazie al collettivo HAM ON EVERYTHING, sono cominciate delle feste illegali in capannoni e strutture industriali, eventi simili ai nostri rave o serate ai nostri centri sociali.
E cosa succedeva in queste feste?
La musica era principalmente hip-hop ma anche punk, e l’attitudine da squat era decisamente punk. Sono stati loro ad iniziare le “Twerk Fest” di LA. Le ragazze prendevano il palco di prepotenza ed invece di fare stage diving twerkavano. Era una scena losangelina abbastanza surreale, e molto interessante per me. Per via dei miei video ci vivevo in mezzo e conoscevo tutti. Ho deciso di raccontarla.
E poi a un certo punto la pratica del twerking è diventata sempre più mainstream.
Sì, dopo qualche mese Miley Cyrus ha twerkato e ciao: non si parlava d’altro, anche in Europa. Di colpo tutti scoprivano la “moda” del twerking. E gli afroamericani si incazzavano, in molti casi a ragione. Quindi l’idea iniziale del documentario si è molto ampliata e il risultato finale è una storia cronologica del fenomeno, un modo per dare credito ai veri ideatori, più che un documentario sulla scena underground di LA.
Mi racconteresti la genesi del twerking? Da quando esiste, o meglio da quando quel movimento del corpo è stato codificato come tale?
Sembrerebbe che già dal paleolitico ci fossero danze tribali incentrate sul movimento del sedere. In America Latina e in Africa ce ne sono tantissime varianti. In Costa d’Avorio, per esempio, c’è la danza Mapouka che è praticamente il twerking. Con lo schiavismo queste danze tradizionali sono arrivate nel sud degli Stati Uniti.
All’inizio degli anni ’90, poi, a New Orleans, dj Jubilee dà un nome a questi movimenti, per la prima volta, in una canzone rap. Dice “Twerk baby, twerk baby, twerk twerk twerk”. Da lì in avanti la parola è stata usata da altri artisti fino a diventare, diciamo, il termine ufficiale.
Tu parli anche di empowerment, però nella visione comune l’immagine è quella di un video rap con un maschio ricco e famoso vestito di tutto punto con abiti costosi, circondato da ragazze seminude che agitano il culo. Che detta così non sembra troppo empowering. Spiegaci meglio.
L’idea è che una cosa non è buona o cattiva di per sé, dipende dal contesto in cui è inserita. L’empowerment ha a che fare con il “reclamare” una cosa, svuotarla della qualità denigratoria che ha preso nella società e usarla come vuoi tu, decidere sul tuo corpo e sull’immagine che vuoi dare di te. In questo senso è da almeno otto anni che donne di tutto il mondo postano su YouTube video girati da loro stesse con la webcam del computer mentre twerkano in cucina, in camera, in pigiama, spettinate, a piedi nudi. Si divertono, si rassodano, lo fanno per far vedere che sono brave, quasi fosse un contest.
E gli uomini non c’entrano niente.
Gli uomini sono portati a pensare che se le donne fanno qualcosa di sensuale è sicuramente diretto a loro, ma non è per forza così. Quando una donna è la regista di se stessa e manca un uomo nell’equazione, il contesto e l’intenzione sono molto diversi da quelli di un music video nel quale si sculetta per degli uomini. Il twerking oggi si fa anche in palestra, in gruppi di sole donne, da sole, può essere tante cose diverse.
Ogni ballo ha anche una storia sociale, qual è quella del twerk?
Il twerk viene dal sud del mondo e viene portato in Nord America con lo schiavismo. Si sviluppa in maniera differente in varie città e scene musicali degli Stati Uniti. A New Orleans, ad esempio, c’è una scena enorme di rapper omossessuali che twerkano, l’opposto dello stereotipo del macho famoso, coi soldi e le tipe nude. In altri posti come Atlanta, invece, il twerking viene fuori dagli strip club. Le stripper ideavano trick da fare col sedere per guadagnare di più.
E tornando alla domanda di prima… è un fatto per forza anti-femminista?
Un uomo che entra in uno strip club pensa di essere un figo, uno che può far fare alle ragazze qualsiasi cosa perché ha i soldi e il potere. Però se chiedi a una stripper – ne ho intervistate parecchie per il film – ti dirà che sono loro ad avere il potere in quella situazione, perché con qualche mossa di culo gli stanno portando via il portafogli. La stripper farà credere all’uomo di essere attratta da lui, gli farà credere di essere un figo. Ma in realtà non si sentirà assoggettata. È un ambiente bello? A mio parere no. Mi sembra un modo desensibilizzato e triste di relazionarsi tra le persone. Ma sul fatto che sia l’uomo ad avere il potere in quel contesto, non ne sono per nulla sicura. Ogni storia ha almeno due punti di vista. Quasi mai la società e i media adottano quello femminile.
Esiste anche una questione razziale? Ho letto spesso battute sul fatto che i bianchi non saprebbero twerkare.
I bianchi sanno twerkare, anche gli uomini se vogliono. Il problema è quando le radici di una cultura vengo prese e ridicolizzate per vendere un prodotto, un trend, alle masse. I neri si sono stufati di vedere in prima serata la giornalista, il conduttore, il comico, la casalinga di turno, tutti a fare la battutina e provare a dare due mosse d’anca fatte male. Nessuno vuole sentirsi una caricatura venuta male, o vedere che dal nulla una persona che non c’entra nulla diventi la faccia mondiale di un aspetto della loro cultura. Con alcune critiche si è andati un po’ troppo in là, a mio parere, ma comunque hanno tutte le ragioni a incazzarsi se si sentono espropriati.
Ovviamente non si parla di gente comune, chiunque può twerkare a casa, in discoteca, in palestra o dove vuole. Il problema sorge quando personaggi enormi, tipo Miley Cyrus, entrano in gioco. Loro dovrebbero sentire molta più responsabilità e non cercare di essere i trend-setter di qualsiasi cosa tanto per stare in copertina. Gli afroamericani dopo anni di abusi ovviamente se la vivono come una questione razziale ma in parte, secondo me, quello che è successo col twerking è un aspetto della internet culture che colpisce un po’ tutto: Chris Brown con il chiodo di borchie con le toppe dei Crass, che manco saprà chi sono, mi fa accapponare la pelle. Così come Kylie Jenner con la maglietta dei Nirvana da $200 fatta dallo stilista sa’l cazzo. O le magliette di Thrasher sui peggio poser che non hanno il minimo interesse nella cultura skate. Gira il cazzo, in generale, a chiunque si sente di far parte di una cultura che viene trasformata in una moda.
Esiste anche un backlash rispetto a tutto questo? Non so, organizzazioni puritane che si battono contro la diffusione del twerking, storie divertenti?
Sì, ci sono state sicuramente. Gli americani si sa che nella censura ci sguazzano: mi ricordo venti studenti sospesi da scuola a San Diego perché all’intervallo twerkavano a testa in giù, una maestra licenziata perché aveva postato un video di lei che twerkava sul suo profilo Facebook, un coprifuoco in una città del sud, tre ragazze arrestate, cose così. Di divertente c’era un blog cattolico con un thread stupendo sul twerking che mi sono letta dall’inizio alla fine e mi ha aiutato mentre scrivevo il film: c’era una confusione totale e domande e risposte assurde, era fantastico.